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Marco Paolini: missione attualizzare Ulisse

Uno spettacolo con chiaroscuri per uno degli artisti più amati dal pubblico in Friuli-Venezia Giulia

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foto: ©ERT FVG

MONFALCONE – Paolini quello del teatro civile. Paolini e suoi monologhi. Paolini e il Vajont. Paolini è il Vajont; per dir la verità 50-50 con Mauro Corona. Paolini, che viene dalla montagna. Paolini il veneto. Paolini con la faccia di uno che ha le mani sporche di terra. Quel Marco Paolini insomma. Quello che ci piace a noi, che ci informa, che ci fa incazzare, poi piangere, poi di nuovo arrabbiare, poi di nuovo commuovere e alla fine anche inorgoglire. E che ci riscatta.

E poi c’è un altro Marco Paolini, quello che si lancia ad esplorare altri campi, mete, percorsi, astrattismi, sogni. Nella fattispecie l’Ulisse, o meglio – il calzolaio di Ulisse, portato in scena per ben due serate in quel di Monfalcone dopo esser transitato per Udine e Trieste. Farraginoso, lento, nebbioso, a tratti grigio. Missione – attualizzare Ulisse: dici niente – l’eroe per antonomasia, tutti gli archetipi dell’Occidente in un’unica figura. Un lavoro immane (probabilmente interminabile) sul quale il Nostro ha senz’ombra di dubbio investito un’odissea in termini di energia. Ma il risultato risulterà forzato, poco fluido, scollegato. Parte con accento balcanico per arrivare sempre bellunese quasi alla ricerca di un esperanto street-credibilty; spunti decisamente profondi si perdono in infinite pause tra dialoghi e battibecchi poco probabili e il disordine che avvolge l’eroe non pare di esclusiva matrice omerica. 

Fruibile, indubbiamente, ed a tratti caricaturale (come nella figura del giovanissimo Hermes), l’impalcatura narrativa viene supportata da stacchetti musicali ora di grande effetto leggi tradizionali ellenici, poi da ballate lumbard, quindi da piaciona vena rock firmata Stones e Doors. Citazione quasi d’obbligo al gruppo greco per eccellenza: gli Aphrodite’s child di Vangelis e Demis Roussos. In effetti si parlava di dèi. Telemaco, Atena, Zeus, Penelope, Antinoo: sfilano un po’ tutti nell’interpretazione precisa ed accurata dei suoi compagni di viaggio.  Però manca il pathos paoliniano, quello che tanto amiamo: il grande assente della serata. 

Insomma, MP declina un Ulisse monocromatico. Non vi è speranza né per gli uomini né per chi abita lo “chalet” Olimpo. L’insensibilità di quelli che abitano di sopra è algida prima ancora che crudele e non basta far dire al protagonista “ora devo andare a cagare” per ben tre volte per renderlo affine alla specie umana. Tutti colpevoli, in un tripudio di misantropia che lascia davvero poca speranza.

Per fare Ulisse, un po’ come per fare Amleto o chi per lui, bisogna essere un po’ Gassman. Autoreferenzialità, narcisismo, intellettualismo (nell’accezione più snob del termine) non sono e (mi auguro!) non saranno mai caratteristiche di Paolini. La sua forza esplosiva è quella di far parlare il popolo al popolo, la gente per la gente. Diretto, chiaro, potente come un pugno allo stomaco. Vero, sanguigno, senza fronzoli. Un teatro che lo tocchi con le mani, che a volte puzza, che ti spintona, che lo vedi nelle strade, e che a volte non serve neanche scriverlo. Il teatro civile di Marco Paolini dicevamo, già, quello che ci piace a noi!

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